lunedì 26 novembre 2007

Insonnia... senza amore

Sono le 6.34 di mattina ed io sono sveglia ormai da quattro ore...
Tutti dormono, anche Michael che è andato a letto prima del solito ieri sera.
Sono sveglia dalle 2.30, ho in pratica dormito poco più di tre misere ore, rannicchiata sul divano sotto una minutissima copertina in pile . Mi sono svegliata mentre Nathan, felice, aveva appena finito la sua sessione di lettura serale con l'ultimo libro di Harry Potter... Non mi sono più addormentata in preda alla rabbia e alla frustrazione di essermene stata là fino a quell'ora, aspettando stupidamente Nathan, che invece ultimamente è più preso dal lavoro e dai suoi libri scaricati da emule, che dalla sottoscritta.
Alla domanda "Perchè mi hai lasciato dormire sul divano fino a quest'ora?" la risposta è stata "Cause I like having you around!". Grazie.

Credo che si diventi mamme con la sensazione di aver perso qualcosa anche a causa dell'improvviso cambio nella relazione con il proprio compagno.
Durante la gravidanza ti si mette davanti ai piedi come un tappeto rosso, per attutire ogni colpo e prevenire ogni rischio (di caduta...). Ti vizia di coccole, ti cura come se la geisha fosse lui.
Ti ama e ti adora, ma tu lo senti che c'è puzza di truffa... e allora abbozzi il discorso, per cadere almeno con stile "tanto lo so che ora che nasce il bambino tutta questa magia finirà di nuovo"... e lui "Non lo dire neanche per scherzo..."
Poi, una notte, in preda alla frustrazione e all'ansia della tua ennesima notte trascorsa a contare i minuti, con il sonno che è lì che ti schiaccia il petto e non ti fa respirare, ma la mente è troppo impegnata a non lasciarti dormire, ti manda in salotto sul divano o a fare una passeggiata... qualsiasi cosa purché la smetti di rompere i coglioni con i tuoi sospiri fastidiosi.
Ammazza della Regina che eri fino a qualche mese fa!
Sfortuna che non abbiamo una cane...forse nella sua cuccia avrei trovato più calore umano.

Al che ho resistito nel letto fino alle cinque. Dal momento che della speranza di dormire neanche l'ombra ho buttato la spugna e ho finto un pigiamo party (al contrario) tra me e me, ingozzandomi di fette biscottate e marmellata... Ma proprio mentre iniziavo a divertirmi, Michael (che di solito si sveglia verso le 7 del mattino) ha iniziato a piangere. Per ricordarmi che neanche di notte, se volessi, se per caso ci stessi pensando in quel momento (godendomi il vantaggio di stare un po' con me stessa, nello svantaggio di essere sveglia insieme ai galli), posso avere una Mia Vita Propria.
Con la santa pazienza l'ho tirato via dalla culla, per non svegliare quel santo di su padre che al mattino deve lavorare e che poverino è andato a letto alle tre per leggersi Harry Potter, l'ho sistemato nel passeggino ed è partito il pilota automatico, avanti e in dientro, avanti e in dietro, perché si riaddormentasse.

E ora sono qui, con le palpebre che mi pendono dal sonno... La giornata vera sta per cominciare.
Mi restano solo pochi minuti ancora di autonomia.

Buona giornata a tutti.


mercoledì 14 novembre 2007

C'era una volta Cappuccetto Rosso...

Cappuccetto Rosso, si sa, è una delle storie più raccontate da generazioni e generazioni di mamme. Forse una di quelle, che, fra noi donne, ha prodotto più danni che benefici. Che ci ha infuso di paure inutili e pericolose, che ci ha sottratto la fiducia nel prossimo e ci ha confezionato e appiccicato sulla coscienza uno spauracchio difficile da liquidare:
"Se vai per la tua strada e non ascolti i consigli di mammà ti troverai presto in un bel guaio... Ed ecco là arriva il lupo! Ah, se solo fossi stata una bambina diligente e buona..."!

Quando avevo circa due anni Cappuccetto Rosso era la favola che mia madre mi raccontava più spesso. Ancora ricordo con le formiche nello stomaco quando mimava, sgranando la bocca, il momento fatidico in cui il lupo, non contento di aver già fatto fuori la nonna, si pappava pure Cappuccetto in un sol boccone. Quel gesto mi terrorizzava, eppure chiedevo a mia madre " ancora, ancora...raccontamela ancora". Lei credeva di divertirmi, invece niente più di quella storia ha potuto, inconsciamente, traviarmi e tarparmi le ali, quando da giovane donna ho iniziato anche io a percorrere il "bosco" da sola.
La figura del lupo nero e feroce ha finito col diventare nei miei sogni una ricorrente metafora di tutte le mie ansie e angosce, di quella voce oscura e diabolica che infetta la mia coscienza nei momenti di negatività..

C'è un libro a me caro, la cui lettura, sono convinta, gioverebbe ad ogni donna. Un libro che, proprio attraverso l'analisi psicologica delle fiabe e dei racconti popolari più ricorrenti nella cultura umana, ha delineato una serie di archetipi alla base del mondo psichico femminile, da secoli domato, soffocato, addomesticato, talvolta persino annullato dalla cultura e dalla civiltà.
Si chiama "Donne che corrono coi lupi" ed è stato scritto da Clarissa Pinkola Estès, una psicologa junghiana a cui è caro il mito della Donna Selvaggia, la saggia profonda e ancestrale, paragonabile alla lupa ferina eppure materna, insita in ogni donna. La quale, privata della sua natura errante, della sua istintualità, diventa timorosa di procedere, priva di iniziative, un relitto in cattività.
Un recupero dunque in positivo tanto della figura del lupo, che da "cattivo" diventa emblema di istintuale sapienza, quanto della donna, che da essere quella stupidina un po' curiosa, ingenua e vulnerabile si eleva dalla sua misera condizione subordinata per espletare l'antica funzione di profonda conoscitrice dell'umana natura.
Si ispirano a questo libro le parole che seguono e ad un sogno di qualche notte fa, in cui Cappuccetto Rosso ero io...

C'era una volta, in un villaggio situato vicino al mare e ad un bosco di ulivi centenari fitto e ombroso, una giovane fanciulla dal viso pulito e l'animo sereno, che tutti chiamavano Cappuccetto Rosso, a causa di una giubbino rosso dal grande cappuccio, che la giovane Cappuccetto portava sempre sulla testa per coprire la chioma riccia e scompigliata.
Un giorno Cappuccetto camminava con il suo ragazzo lungo il sentiero che conduceva alla scogliera, per raggiungere la nonna, che quella mattina partecipava ad una gara di pesca, per la fiera del paese. Ma giunti presso la scogliera la ragazza decise di continuare da sola per il sentiero, che da lì si inoltrava nel bosco non molto distante dalla casa di sua madre.
Così, lasciato il giovane amante, proseguì canticchiando spensierata per la stradina sterrata, fino al muretto in pietra che separava il bosco dal sentiero.
Mentre scavalcava il muretto, già immersa nella frescura dell'ombra prodotta dalle folte chiome degli antichi alberi, che se ne stavano là fieri come giganti rugosi e ritorti, sentiva in cuor suo che di lì a poco un fatidico incontro l'attendeva. Sapeva infatti che quel bosco era abitato da un lupo feroce e spietato, che a detta di chiunque non avrebbe esitato un solo istante per divorarla in un sol boccone.
E così, molto prima di quanto lei stessa potesse immaginare, ecco che il suo pensiero diveniva realtà davanti ai suoi occhi. Quel lupo famelico era proprio là a pochi passi da lei, steso sotto un albero con il muso appoggiato fra le zampe.
Non appena il lupo udì i passi non certo felpati della fanciulla (nota a tutti anche come Pie' di piombo, per la pesantezza con cui poggiava il tallone in terra) sgranò gli occhi, rizzò il capo e ringhiando con tutta la ferocia che aveva in corpo, fece mostra dei suoi denti aguzzi per intimorire la povera Cappuccetto Rosso.
Tuttavia, contrariamente a quanto si poteva pensare di una fanciulla dall'animo così gentile e delicato, questa non si intimorì affatto; anzi, se ne stette lì davanti al lupo, con un sorriso tranquillo . Al ché il lupo si drizzò in piedi con violenza e il pelo sul dorso gli si fece irto come aghi di pino, tese le gambe in avanti, come se si stesse preparando all'attacco e ringhiò ancora più forte, mentre gi occhi gli si riempivano di sangue.
Ma Cappuccetto stette là ferma e guardando il lupo negli occhi disse:
"Mi dispiace, ma io non ho paura di te. E siccome non ti temo, tu non puoi nuocermi"
Allora quello, che si sentì provocato da quelle parole, sferrò il suo attacco mortale... ma invano, perché appena le fu vicino rimbalzò all'indietro, come se una bolla invisibile e impenetrabile la proteggesse. Ci provò ancora e ancora, ma niente, Cappuccetto era davvero inattaccabile.
Al ché, scoraggiato si accasciò nuovamente in terra.
Cappuccetto Rosso si fece vicino, sorridente e amichevole, mentre il lupo cercava ancora di intimorirla con i suoi denti in vista. Si inginocchiò e gli prese la zampa fra le mani.
In quell'istante si rese conto che quel lupo era affamato come pochi, la zampa ossuta e scarna, come il resto del corpo, rivelavano alla fanciulla che il poverino non si nutriva da secoli e provò pena per lui; il cuore le si fece piccino e quasi pianse per la pietà.
Decise così di ritornare alla scogliera dove intanto si svolgeva la fiera del paese, per recuperare un po' d cibo per il lupo sventurato. Ma avendo, come sempre dimenticato il portafoglio a casa (cosa che capitava anche nei momenti meno opportuni, come quando era in procinto di prendere un aereo e a quel punto lo perdeva perché senza documenti) non le restava che chiedere l'elemosina ai passanti, come la Piccola Fiammiferaia (una storia che l'aveva sempre commossa da bambina).
Riuscì a racimolare un paio di polpette di carne, come quelle che sua nonna le preparava per il pranzo domenicale, e ritornò dal lupo al quale aveva promesso che sarebbe presto ritornata con del cibo.
La bestia era così affamata che divorò il bocconcino sbattendo i denti dalla fame. Ma mentre sfamava l'animale si accorse, per giunta, che le sue zampe erano attorcigliate ad ad una catena, che teneva il disgraziato legato ad uno di quei grossi ulivi secolari.
Forse qualcuno lo aveva lasciato lì incatenato per impedirgli di compiere ulteriori nefandezze fra le stalle del villaggio, pensò la ragazza.
Ciò nonostante, Cappuccetto, per quanto temesse le reazioni dei contadini suoi compaesani che l'avrebbero presa con tanto di forcone se avessero saputo che si intratteneva senza remore con quel lupo cattivo, non poteva tollerare un animale alla catena. Lo stomaco le si rivoltava e il cuore le doleva... Per quante stragi di galline e agnelli avesse potuto compiere la fiera, le sue zampe legate a quel tronco le parevano la più infame cattiveria.
Allora disse al lupo:
"Caro lupo caro, io vorrei tanto liberarti da queste terribili catene, ma tu devi promettermi che lascerai in pace, galline, agnelli e capre. Solo degli animali selvaggi come te dovrai nutrirti, altrimenti la prossima volta sarà la forca e non le catene a fartela pagare..."
Allora il lupo, seduto sulle zampe posteriori, alzò la zampa destra e se la strisciò sul muso peloso per tre volte. Poi abbassò il capo in segno di remissione.
Cappuccetto sciolse le catene e lo lasciò libero di andare, raccomandandosi:
"Tu hai promesso e io anche ti prometto che tornerò a trovarti e ogni volta che mi sarà possibile ti porterò in dono altre polpette. Ma mi raccomando, sta lontano dal villaggio e dalla campagna limitrofa, quanto più puoi inoltrati nel profondo del bosco dove gli uomini non possono raggiungerti. Solo là sarai al sicuro ..."
"Grazie" disse il lupo ululando come solo un lupo sa fare e guardando Cappuccetto nel profondo dei suoi occhi, che a quel punto erano pieni di lacrime per la gioia e la commozione, si voltò e corse verso ovest, sparendo alla sua vista..."




martedì 6 novembre 2007

Questione di note

Dice bene mia sorella.
Alle volte, senza che lei ne sia consapevole, escono dalla sua bocca parole che per me sono grandi motti di saggezza e in genere ne prendo nota. Oggi, parlando come non facevamo più da tempo, ha detto
qualcosa che mi hanno colpito.
Diceva: "Tu sei tropo cerebrale Tà. Riflettere è importante. Ti aiuta a fare il punto, a chiarire le dinamiche interiori. Poi basta. Le parole vanno prese come quei numerini in un libro che stanno al fondo della pagina. Io per esempio, li salto a priori, non li leggo mai..."

Mi accorgo di aver perso molto tempo, da che Micahel è nato a leggermi le note noiose, invece dei primi fondamentali capitoli della nostra storia insieme. Capitoli che scorrono veloci come i titoli di coda di un film e che sto scrivendo inseme a lui, a volte con troppo poca consapevolezza del magico momento che sto vivendo.

E' stato un anno sereno questo. Nel complesso l'anno più spensierato che ho mai vissuto. Eppure un anno vissuto nella superficie, non nel profondo.
Fino a prima che Michael
nascesse mi sono sentita come galleggiare sul mare, a pancia in su, nella nota posizione del morto, immersa da un lato nell'acqua, dall'altro nell'azzurro del cielo e dei raggi del sole. Ero leggera e liberata da ogni preoccupazione. Da ogni inutile elucubrazione mentale.
Ora mi sembra di essere seduta al centro di un banco di nebbia. Da nessun lato riesco a vedere oltre. Sono seduta a gambe incrociate e attendo. A tratti mi viene l'ansia, ho paura, perché oltre alla nebbia scende anche il buio. Poi mi riprendo dall'ansia e dai timori. Ma mi sento comunque là, ferma e seduta ad attendere di vedere oltre la nebbia, consapevole del fatto che qualcosa si cela alla mia vista.

Il confronto con Micahel, soprattutto agli inizi del nostro rapporto, mi ha rivelato (una volta ancora) il peggio di me. In molti momenti mi sono guardata allo specchio e ho visto in me la madre che non avrei voluto mai essere e che ho temuto di diventare, quando mi dicevo in passato che sarebbe stato meglio per un figlio non nascere dal mio ventre.

Un bambino, infatti, prima di essere il miracolo che tutti decantano per una madre, prima che possa insorgere quella conapevolezza del magico dono e privilegio che l'essere madre rappresenta, si può rivelare il più grande fardello, la cui responsabilità a volte offusca gli aspetti più preziosi, gli attimi più belli di una fase della vita veloce quanto irripetibie, fondante e unica per entrambi.

Un bambino impone degli obblighi e delle rinunce, un impegno che non puoi decidere di non assumerti se un giorno ti alzi e vuoi solo startene un po' là, a tormentarti con le solite seghe mentali. Non a caso, credo, che la rinuncia più grande a cui ci si debba votare sia proprio quella delle seghe mentali, del giudizio verso se stessi e della frustrazione che ne consegue, per i propri fallimenti, i propri presunti insuccessi, per tutti i progetti accantonati, irrisolti, abbandonati, nel cassetto.
Solo quando questo impegno è accettato spassionatamente, senza remore, senza rimpianti, allora subentra la gioia di essere madre, di vedere le conquiste di quell'esserino così inconsapevole eppure così ammirevole per la sua tenacia, di osservare con la commozione nel cuore le sue manine muoversi, esercitarsi nella presa, nei nuovi gesti.

Mi accorgo, il più delle volte,di essere colma di frustrazione e rimpianto. Detesto il sacrificio. Sento ribollire nel profondo un vagito bestiale, un impulso disumano che sta agli antipodi di quell'istinto materno.
Molto dipende dall'essere sempre lì a rigirare la minestra delle mie colpe, dei miei rimpianti, delle mie dinamiche interiori. Di essere, come un tempo, nuovamente arroccata fra le fronde dei miei pensieri. Per giunta peggiori.
La mente, la mente che mai riposa.

Spero che la nebbia si dissolva presto. Che io possa tornare a vedere con chiarezza, con gli occhi del cuore. E che la mia mente, che esagera e che esaspera i momenti di stanchezza, se ne vada in pensione. Una volta per tutte, che molli la presa e la necessità del controllo.

giovedì 1 novembre 2007

Un anno fa

Un anno fa.
Prestissimo nella mattina mi sono svegliata... piangendo... pensando a "I ponti di Madison County", mentre mi giravo e guardavo Nathan ancora addormentato.
Carica di ansia l'ho svegliato, ci ho litigato e sono uscita di casa infilandomi le prime cose tirate fuori dall'armadio, con un pensiero fisso nella testa: trovare una farmacia aperta per comprare un test di gravidanza.
A piedi, sotto la pioggia, senza l'ombrello, da San Lorenzo a Termini, con la paura di riscoprirmi incinta. Mille le opzioni contemplate, tra cui quella di scappare nel silenzio della notte nel posto più lontano che potessi immaginare... scappare dal rischio quasi inevitabile di finire intrappolata nella routine domestica e in un ruolo al quale non avrei saputo resistere.
Tornata a casa mi sono chiusa in bagno, ho fatto pipì nell'astuccetto dopo aver letto le istruzioni infinite volte, attendendo minuti che sembravano ore. Ed ecco il verdetto: bollino rosso comparire dove non avrebbe dovuto, dove non avrei voluto e infondo, per tanto tempo ho desiderato.
Pianto, pianto, "No, non è possibile...", pianto.

Sono uscita dal bagno tremante, con l'astuccetto tra l'indice e il pollice, retto a distanza, come se fosse un ordigno che poteva esplodere da un momento all'altro.
"Nate, sono incinta". Risata isterica. Abbiamo litigato una volta ancora.
Poi, ho trascorso il resto del giorno seduta sul balcone, a parlare al telefono con le ragazze, a meditare incredula, confusa. Timorosa d'essere felice.

Questa mattina, dimentica dell'insolito anniversario mi sono svegliata con un diavolo per capello. Michael ha fatto suonare la sua sveglia troppo presto e io l'ho presa peggio del solito. E così sono passate le successive quattro ore, nel tentativo di tirare ancora un po' di sonno, malamente, quasi inutilmente. E sono scesa giù dal letto che mi veniva già da piangere, pensando a quanto inutile e insensata mi sento in questi giorni, intrappolata infine in quel ruolo che non reggo, in una routine che detesto.
Non posso negarlo, fare la mamma non mi calza a pennello. E quando dico "fare" la mamma, non intendo dire "esserlo". Non fare altro che questo, non avere una prospettiva, solo tanti sogni nel cassetto, progetti forse irrealizzabili che probabilmente si perderanno insieme al resto, al tempo perso a piangermi addosso.
Come un tempo.
Ma oggi è diverso.
Oggi cadere è portare qualcun altro nel mio baratro. Oggi fallire è insegnare a qualcun altro quello che io ancora oggi mi rifiuto di imparare, e cioè che la vita è tutta questa, che le cose vanno solo in un modo e non esistono infinite possibilità, infiniti finali per ogni storia... Quello che mi dicevano da bambina "Vedrai, quando sarai grande cambierai idea... i sogni sono sogni, la realtà è un altra cosa"è una lezione che non vorrei mai dover insegnare di mio pugno alla mia prole.

Questo giorno è andato così, cadente insieme alla pioggia e al grigiore di un autunno arrivato d'improvviso. Nella durezza del mio cuore, nella tristezza di lacrime che un anno fa piangevo per il timore di quello che sono oggi... eppure anche tra le risate di Michael, che nonostante tutto si accontenta di poco per essere felice.
Lo osservo. Lo ammiro. Nel suo impegno costante anche solo nell'osservarsi le mani; nel suo saper ridere di gusto anche con una stronza come me, per qualche verso strampalato di animale o due bacini sulla pancia al cambio del pannolino.
Lo amo infinitamente e mi perdo nel suo odore, eppure a tratti vorrei fuggire da lui e nascondere la mia debolezza ai suoi occhi attenti, che alcune mattine mi guardano silenziosi, in attesa di un mio sorriso per poter sorridere.